Pechino sta sfruttando il conflitto a Gaza per minare l’immagine di Washington nel Medio Oriente e nel Sud globale. Un’analisi condotta dall’Institute for National Security Studies (Inss) di Tel Aviv, pubblicata il 22 settembre 2025, mette in luce questa strategia.
Negli anni passati, la Cina era percepita come un Paese privo di antisemitismo strutturale, con un’immagine generalmente favorevole verso gli ebrei, considerati un popolo ingegnoso e di successo. Tuttavia, a partire dal massacro del 7 ottobre e dalla successiva guerra a Gaza, la situazione è cambiata drasticamente. Pechino è ora accusata di aver tollerato, se non addirittura incoraggiato, l’emergere di una retorica antisemita, amplificata dai media statali e dalle piattaforme digitali nazionali.
Un rapporto dell’Inss analizza questa trasformazione, evidenziando come la Repubblica Popolare Cinese stia attuando una campagna di influenza su più livelli. L’obiettivo non è tanto attaccare Israele direttamente, quanto piuttosto indebolire la posizione degli Stati Uniti nel Medio Oriente e nel Sud globale. Le critiche unilaterali nei confronti di Tel Aviv, l’amplificazione della propaganda di Hamas e Iran, e i paragoni tra Gaza e lo Xinjiang, così come tra Israele e i criminali giapponesi della Seconda guerra mondiale, non sono episodi isolati, ma parte di una strategia comunicativa che collega la guerra d’informazione al confronto tra le superpotenze.
Struttura della campagna di influenza cinese
Secondo il rapporto, la campagna di Pechino si articola su quattro assi principali. Il primo è rappresentato dalla stampa statale, che ritrae Israele come un “proxy americano” e critica il sostegno degli Stati Uniti al governo di Netanyahu. Il secondo asse comprende operazioni online “coperte”, con reti riconducibili a Pechino che diffondono contenuti anti-israeliani e teorie del complotto antisemite. Il terzo elemento è la censura selettiva sulle piattaforme interne, che consente la diffusione di narrazioni ostili mentre ostacola le voci pro-Israele. Infine, il quarto asse riguarda il ruolo di organizzazioni esterne, finanziate o ideologicamente affini al Partito Comunista, che amplificano questi messaggi in Occidente.
L’obiettivo della Cina è chiaro: “colpire gli Stati Uniti attraverso Israele”, sfruttando la crisi attuale per erodere la credibilità americana e guadagnare consensi nel mondo arabo-musulmano e nel Sud globale.
Il concetto di allosemitismo
Questa nuova dinamica è legata a un’evoluzione ideologica interna. L’analista israeliano Tuvia Gering ha sottolineato come il cambiamento in Cina non rappresenti solo una trasformazione ideologica, ma un intreccio di elementi ideologici e tattici. La categoria dell’allosemitismo, che descrive una visione ambivalente degli ebrei, aiuta a capire la rapidità con cui si è passati da un filosemitismo superficiale a un’ostilità alimentata dal nazionalismo han e dalla propaganda patriottica promossa da Xi Jinping.
Gering ha anche evidenziato che l’antisemitismo in Cina non deriva da radici religiose profonde, ma è piuttosto il risultato di una proiezione ideologica e politica. Israele viene utilizzato come strumento di confronto con gli Stati Uniti: più viene demonizzato, più si logora l’immagine americana.
Il ruolo cruciale del 7 ottobre
La guerra a Gaza ha accelerato questo processo. Fin dal giorno successivo agli attacchi di Hamas, la Cina ha condannato Israele senza menzionare Hamas, allineandosi alla retorica di Russia e Iran. Sui social media cinesi si è registrata un’ondata di contenuti ostili, inclusi paragoni tra Israele e il nazismo o teorie del complotto sul “controllo ebraico” dei media e della finanza. La loro diffusione, in un ambiente rigidamente controllato dal Partito Comunista, ha sollevato interrogativi sulla reale volontà delle autorità di intervenire.
Nonostante ciò, la Cina non sembra intenzionata a svolgere un ruolo attivo di mediatore. I tentativi di posizionarsi come “costruttore di pace”, già evidenti nell’accordo tra Iran e Arabia Saudita del 2023, si sono arenati di fronte alla complessità della crisi israelo-palestinese. Secondo l’Inss, Pechino preferisce trarre vantaggio politico dalle difficoltà americane piuttosto che investire risorse diplomatiche per risolvere il conflitto.
Le conseguenze per la sicurezza europea
Questa strategia di Pechino presenta però limitazioni evidenti. Nel Medio Oriente, la sicurezza regionale continua a fare affidamento sugli Stati Uniti, sia per il contenimento dell’Iran sia per la cooperazione antiterrorismo. La Cina rimane distante dalla possibilità di diventare garante dell’ordine regionale, limitandosi a capitalizzare sulla crisi reputazionale americana.
Per Israele, il contraccolpo è stato significativo. Dopo l’impressione di un “tradimento” da parte di Pechino, negli ultimi mesi sono giunti segnali di disgelo, come l’incontro tra i ministri degli Esteri Wang Yi e Gideon Sa’ar. Tuttavia, la fiducia tra i due Paesi resta compromessa.
Per l’Europa e l’Italia, la questione non è da sottovalutare. Le campagne di influenza straniere che utilizzano l’antisemitismo come strumento possono avere ripercussioni sulle opinioni pubbliche, alimentando polarizzazione, odio online e minacce alla sicurezza delle comunità ebraiche. Inoltre, a livello strategico, l’Unione Europea deve affrontare l’uso dell’antisemitismo come arma narrativa nel proprio quadro di valutazione dei rischi nei rapporti con Pechino, dove l’odio antiebraico si conferma come uno strumento geopolitico di grande rilevanza.